La Consulta, con la sentenza n°57 del 29 gennaio 2020, ha rigettato per infondatezza la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo, dichiarando legittima l’interdittiva antimafia incidente sull’attività imprenditoriale di carattere privato.
Una statuizione che, consideratone il copioso utilizzo da parte delle Prefetture negli ultimi anni, si preannuncia essere foriera di significativi ed incisivi effetti pratici nella sfera giuridici dei soggetti destinatari.
La decisione del Giudice delle Leggi origina dalla una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Palermo avente ad oggetto gli artt. 89 bis e 92, commi 3 e 4, del decreto legislativo n° 159/2011 «Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136», in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione.
In particolare, secondo il giudice di merito l’art. 89 bis amplierebbe indebitamente l’ambito di rilevanza del tentativo di infiltrazione mafiosa dalla contrattualistica di carattere pubblicistico all’attività imprenditoriale prettamente privata, ove, tradizionalmente, ha trovato terreno d’elezione la sola comunicazione antimafia.
Un aspetto in grado di produrre gravose ripercussioni nella sfera giuridica dei soggetti destinatari, in quanto l’intervenuta interdittiva, quale effetto automatico, ai sensi dell’art. 67 del d.lgs. 159/2011 (misure di prevenzione disposte dell’A.G.) cui rimanda l’art. 89 bis, da un lato, precluderebbe ad essi la possibilità di conseguire autorizzazioni e concessioni allo svolgimento della propria attività imprenditoriale e, dall’altro, la decadenza di quelle di cui fossero già titolari.
A parere del giudice rimettente la disciplina in esame sarebbe incostituzionale per due ordini di ragioni: – Violazione, ex art. 3 Cos., del principio di ragionevolezza ed eguaglianza, poiché il provvedimento interdittivo mediante i suoi effetti automatici sarebbe privo di graduazione, diversamente da quanto garantito per le misure di prevenzione applicate dall’autorità giudiziaria; – Violazione, ex art. 41 Cost., del principio della libertà di iniziativa economica, poiché si legittimerebbe, sulla falsariga di meri indizi, la P.A. ad inficiare l’attività economica privata che alcun riflesso ha nel settore pubblico.
Tali argomentazioni non hanno, tuttavia, fatto breccia nella Consulta, la quale, nel solco di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma indagata, con una lapidaria sentenza di rigetto per infondatezza ha statuito un principio di diritto in senso diametralmente opposto.
Nello specifico, il Supremo Consesso afferma che l’interdittiva antimafia di cui all’art. 89 bis e 92 T.U. Antimafia non viola né l’art. 3, né l’art. 41 della Carta Costituzionale, trattandosi di misura introdotta dal legislatore nel sistema ordinamentale per contrastare il pericoloso fenomeno mafioso che, mediante la sua capacità di adattamento, oggi più che mai, è in grado di compromettere i valori della libera concorrenza del mercato, della libertà e della dignità dei singoli cittadini.
Valori chiaramente intrisi di risvolti pubblicistici.
La forza del sodalizio criminoso è tale da poter inquinare e falsare il naturale sviluppo dell’attività economica.
Aspetto confermato dalla relazione del Presidente del Consiglio di Stato sull’attività della giustizia amministrativa per l’anno giudiziario 2020 e dal dossier della Commissione Parlamentare Antimafia del 2018.
E’ in questo contesto di contemperamento di valori di rilevanza costituzionale che la scelta del legislatore di conferire tale potere al Prefetto va considerata legittima.
Una legittimità che, in concreto, va rinvenuta, altresì, nella natura e criteri di applicazioni del provvedimento de quo.
L’interdittiva antimafia ha natura cautelare e preventiva, non certo definitiva, così come taluni erroneamente immaginano.
Il prefetto nel disporla ha l’obbligo di valutare scrupolosamente, nell’orbita dell’attualità, gli indizi dai quali, in un quadro complessivo caratterizzato da chiarezza e completezza, si evinca il tentativo di infiltrazione mafiosa.
Essa ha una durata temporale di efficacia pari a 12 mesi, decorsi i quali il Prefetto è tenuto, pena la decadenza della sua efficacia, a rivalutare scrupolosamente la situazione ad oggetto, comportando l’eventuale inerzia la possibilità per il privato di riscriversi all’albo di appartenenza e svolgere la propria attività professionale.
Merita, infine, un chiarimento l’aspetto della gradualità della misura che taluni asserivano essere presente nei soli provvedimenti di prevenzione disposti dall’A.G.
A parere della Corte Costituzionale si tratta, infatti, di un’interpretazione errata che non legge il fenomeno nella sua complessità, poiché, seppur in una fase successiva, essa è garantita mediante l’impugnazione innanzi al G.A. cui è riconosciuto un sindacato intrinseco forte.
Orbene, la lettura costituzionalmente orientata delle norme ad oggetto così come avanzata dal Giudice delle Leggi non sembra essere espressione di alcuna forzatura, né considerare recessivi i principi di eguaglianza, ragionevolezza ed iniziativa economica privata.
Essa, al contrario, con argomentazioni condivisibili, raggiunge il sapiente punto di equilibrio tra i contrapposti interessi in gioco, garantendo la continuazione un valido strumento di lotta al fenomeno della criminalità organizzata di stampo mafioso.